Quarantasei anni senza Clark. Uno dei più grandi di sempre

Jim-clark

Tuta bianca, riga nei capelli a sinistra precisa come un orologio svizzero e marcata dal ciuffo pendente dalla parte opposta. Qualche tocco di brillantina per sistemarli, nemmeno fosse stato una star di Hollywood, invece era solo una comodità, così da evitare che la chioma bruna gli ostruisse la preziosa visuale una volta indossato il casco. James Clark jr, meglio conosciuto come Jim, era – negli anni sessanta – ciò che potremmo definire non solo il pilota da battere, ma anche il pilota più forte di tutti i tempi, affiancato a Juan Manuel Fangio.

Il sette di aprile del 1968 Jim aveva già in tasca tre titoli mondiali, dopo aver disputato appena settantadue Gran Premi di cui ben venticinque vinti. Sul giro secco era una furia. trentatré pole position e nulla lasciato al caso. Era un maniaco della perfezione, un pilota dalla guida sopraffina, imitata da pochissimi eletti nella storia della Formula Uno.

Tutte le stagioni della sua carriera nella classe regina del motorsport a quattro ruote le aveva passate sempre con il medesimo colore, un ideale, una voglia – quella di vincere – chiamati Lotus. Quella di Colin Chapman. Lui, piccolo scozzese in grande simbiosi con le vetture britanniche, che talvolta pareva essere protesi naturale e perfetta per quelle vetture avveniristiche e dall’aerodinamica avanzata e viceversa, perché con quelle lamiere sistemate attorno lui volava. E non ha più smesso di farlo. Proprio come quel giorno di quarantasei anni fa, in cui è decollato per poi decidere che sarebbe stato più bello vedere tutto e tutti dall’alto, così come spesso gli accadeva nella classifica piloti.

clark_hock_04mem7 aprile 1968, Hockenheim. In Germania va in scena una gara di Formula 2 a cui Clark decise di prendervi parte. Sì, perché molti piloti di allora non correvano solo in una categoria come avviene oggi. Clark si mise al volante della sua monoposto, prese il via e tutto sembrava andare come al solito. Al quinto giro il dramma inaspettato. Clark perse improvvisamente il controllo della sua Lotus poco dopo il rettilineo del traguardo. Due correzioni, l’auto sembrò rispondere bene, ma in realtà fu una mera bugia della fisica. La Lotus dello scozzese si diresse contro una zona non protetta dalle barriere e proprio in quel punto si trovavano degli alberi.

L’impatto fu tremendo, a una velocità stimata di circa duecento chilometri orari. La scocca della vettura si spezzò in due, mentre il corpo di Clark fu sbalzato dalla vettura e colpì con il casco un ramo di uno degli alberi. Il corpo straziato atterrò e puoi fu il buio. A causare l’incidente un possibile guasto o una foratura della gomma posteriore destra, ma poco importa ormai. Anche perché sono passati ben quarantasei anni da quel maledetto giorno di Hockenheim. Quello sprazzo di giornata che ci ha tolto uno dei più forti piloti di tutti i tempi, e lo ha relegato a un ricordo che tutti noi gli tributiamo a ogni sette aprile da quarantasei primavere a questa parte. Non sarà stato il più vincente di sempre, ma se il suo ricordo è ancora vivo, un motivo ci sarà.

In giorni di polemiche come questi, dettati da regolamenti nuovi e non ancora accettati dai più, sarebbe bello tendere l’orecchio sul circuito tedesco, sentire rombare un motore ed esclamare: “Ma certo, è Jim che pilota la sua Lotus”. E in che posizione è? Facile. Sempre la solita.

 

Lascia un commento